Perchè ChomeTEMPORARY: la contemporaneità come responsabilità
Il presente è l’unico tempo che ci è dato. Il passato è già stato; il futuro non c’è ancora. È nel presente che ci collochiamo e che si colloca la nostra azione. È sufficiente questo a definirci uomini e donne “contemporanei” oppure essere contemporanei è qualcosa di diverso? Forse addirittura di migliore? Qualcosa che ha a che fare con la qualità del nostro agire e con le conseguenze delle nostre azioni sulla realtà del mondo?
Conosco persone che si lamentano poiché il loro tempo è “purtroppo” peggiore del passato. Avrebbero voluto vivere in un’altra epoca e conseguentemente vivono rimpiangendo ciò che gli è stato negato. Ne conosco poi altri che vivono sospesi in attesa che a questo oggi dis-graziato (privo di grazia) segua finalmente il futuro della pienezza e della bellezza. Se potessero si farebbero ibernare e scongelare tra qualche decennio o secolo.
Li conosco io, ma sono certo che ognuno di noi può rintracciare nella sua cerchia di conoscenze persone simili. Ma c’è dell’altro.
Credo infatti che ognuno di noi possa rintracciare in se stesso di volta in volta l’affiorare di questo pensiero, di questa attitudine verso la realtà. Tutto il male e tutto il bene è già contenuto in noi prima che negli altri. È forse per questo che siamo così competenti nel riconoscerlo.
Non si tratta, occorre dirlo, di una attitudine che riguarda solo il nostro tempo. La filosofia e la letteratura riportano innumerevoli riflessioni su questa caratteristica dell’umano. S. Agostino ad esempio scrive nel V secolo “Sono tempi cattivi, tempi difficili. Così dicono gli uomini. Viviamo bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi! Quali noi siamo, così sono i tempi”.
Si tratta dunque di una attitudine dell’umano, una “tentazione” che ci accomuna tutti, in tutti i tempi. In un’epoca come la nostra nella quale il crollo delle ideologie politiche e religiose capaci di preconfezionare un “senso” plausibile al vivere lascia il destino dell’Uomo alla sua decisione, questa tentazione diventa però particolarmente acuta e pericolosa.
La sua conseguenza prima è infatti l’irresponsabilità, la nostra irresponsabilità nei confronti della realtà. Ci chiamiamo fuori da essa osservandola, e criticandola, come se ne fossimo esterni, non vi fossimo coinvolti. Creiamo addirittura una realtà separata dal mondo, nella quale facciamo rientrare solo noi stessi o al massimo una piccola cerchia di persone a noi care e di quella ci occupiamo. Poiché però indipendentemente da questi “deliri” noi siamo del mondo, anche ogni nostra inazione diventa comunque una azione che poniamo nel mondo.
Non è dunque un caso se la nostra epoca è stata da qualcuno definita “l’epoca delle passioni tristi”, un’epoca nella quale il futuro non è avvertito come promessa, bensì come minaccia (Bensayag – Schmit). Molte sono le cause di questa situazione e non è mia intenzione analizzarle dettagliatamente.
Mi interessa invece segnalare che tra le varie cause si deve annoverare questa attitudine da “santi” (santo = separato), da “spettatori disinteressati” con la quale partecipiamo al mondo. Il futuro è una minaccia in quanto sentiamo questo futuro “altro da noi” e lo sentiamo altro proprio in quanto ce ne siamo autoesclusi rinchiudendoci in una realtà alternativa completamente autoreferenziale che abbiamo creato ad hoc per “sentire” solo noi stessi.
Gli sforzi che poniamo in essere nell’oggi per replicare identiche le abitudini, i modelli e le esperienze del passato sono un modo di separarci dalla realtà e raccontano di una distorsione nel nostro rapporto con la contemporaneità.
Io sono intimamente convinto che vivere nel passato, vivere replicando il passato e prescindendo dal presente, sia un modo di rinnegare il passato, non di celebrarlo. Gustav Mahler diceva: "La tradizione è tener vivo il fuoco, non adorare le ceneri".
Il passato è il luogo delle nostre radici e la fonte del nostro sapere. Il passato era vivo negli uomini che lo hanno creato con la loro vita. Lo hanno fatto loro, ma spesso non “per loro”. Anzi oserei dire che le cose migliori del passato vengono sempre da una spinta creativa, da una tensione verso il futuro, dalla volontà di compiere qualcosa che trascenda l’oggi e se stessi. Replicare oggi il passato è dunque farne un feticcio, un idolo morto. Svilisce noi e tradisce lo spirito di coloro che ce lo hanno consegnato in eredità affinché lo rendessimo vivo nel nostro tempo.
Per questo vivere nella contemporaneità è così importante. Vivere nel proprio tempo è un atto di responsabilità verso l’Umanità tutta, presente, passata e futura. È un ricevere da chi ci ha preceduto per donare a chi ci succederà, avendone goduto insieme agli uomini ed alle donne del nostro tempo.
Vivendo nella contemporaneità noi traghettiamo il passato e chi ce lo ha consegnato in un futuro che senza di noi non sarebbe stato possibile. Traghettare il passato non è replicarlo uguale. È invece superarlo, essendo se del caso capaci di trascenderlo.
Se invece, abdicando alla nostra responsabilità, rifiutiamo il presente e replichiamo pedissequamente il passato, il futuro non potrà che essere una copia di ciò che già fu. E una copia è sempre e soltanto una brutta copia.
di Marco E. Tirelli - Senior Partner di Tirelli & Partners